lunedì 28 novembre 2011

Passato o Futuro


Il passato non conta. O meglio: conta nella misura in cui lo lasciamo contare e gli permettiamo di dettar legge sul futuro. Quel che conta è il futuro. La salvezza della nostra vita è nel futuro. Poco o tanto che sia, il futuro è la possibilità e dipende da me. Il passato invece ormai è andato, se qualcosa ci ha insegnato bene, altrimenti, se deve continuamente rimproverarci, metterci paura, e bloccarci, meglio lasciarlo andare.
La vita di chi attende che le cose cambino, che Dio ci offra l'occasione buona, che qualcuno ci valorizzi per quel che davvero abbiamo dentro... è una vita già passata. Ti posso già raccontare come andrà a finire. Se invece tu cambi le cose, partendo da quelle piccole e andando su su, osando sempre più, il tuo centro diventa il domani e le possibilità sono infinite. Neppure tu sai dove ti porterà la tua creatività.
C'è un cristianesimo del passato e un cristianesimo del futuro, ancora da scrivere. Il primo è quello dei punti fermi, delle certezze e della tradizione. Il secondo è quello che vivi e che forse non hai ancora tirato fuori.

domenica 9 ottobre 2011

Filo diretto con Maria

In ambito cattolico esistono due colonne portanti, apparentemente indipendenti, che procedono a braccetto da circa 200 anni. Si tratta da un parte del cosiddetto primato di Pietro, e quindi il ruolo del papa nella chiesa, dei suoi poteri e della definitività delle sue affermazioni; e dall'altra il ruolo di Maria, madre di Gesù, ma grazie alla Tradizione anche madre di Dio, madre della chiesa, Immacolata Concezione, Sempre Vergine, Assunta in cielo, Regina della pace, Consolatrice degli afflitti, Mediatrice della salvezza e tanto altro ancora...
Una storia tipica degli ultimi due secoli, dove dietro a queste due tematiche si gioca il futuro di problemi molto concreti: il potere e la donna nella chiesa.
La mia tesi è che abbinandoli insieme, si è tentato di risolverli l'uno con la forza dell'altro.

Il papa secondo Pio IX
Il papa nell'epoca moderna, mosso da eventi che mettono in discussione il senso della sua presenza,  necessita sempre più di sottolineare la propria autorità. Si tratta indubbiamente di una priorità molto stringente per tutti i pontefici del XIX secolo. Il Comunismo ateo, la fine del potere temporale, ma prima ancora la Rivoluzione Francese, e poi la nascita della nuova Europa in seguito alle scorribande napoleoniche, con le regole dettate dal Congresso di Vienna e anche in Italia, la voglia di diventare una nazione autogestita, senza più padroni, nè tiranni, che siano Borboni, Austriaci ...o lo stesso Stato della Chiesa. Tutto questo fa si che la chiesa venga liberamente e aspramente criticata e vista più alla luce dei suoi interessi politici che per la sua missione religiosa.
E' Pio IX il pontefice che segna un netto cambio di marcia. Un uomo certamente ispirato da una coscienza coerente e dalla forte spiritualità interiore che però a cavallo di un secolo che presentava tante provocazioni non seppe far altro che scegliere la via dell'arroccamento, dell'imposizione forzata e minacciosa della propria stessa autorità.
Lo fece con la promulgazione del famoso Sillabo, contenente l' "elenco dei principali errori del nostro tempo", dove a suon di anatemi si ribadiva il diritto divino della chiesa di mantenere le proprie prerogative, ereditate dall'impostazione medioevale. Lo fece definendo ed esercitando immadiatamente il dogma dell'infallibilità del papa nel Concilio Vaticano I. Lo fece politicamente, manifestando ogni possibile resistenza all'unità di Italia avvenuta suo malgrado nel 1861 e pochi anni dopo, con l'annessione all'Italia anche della città di Roma, ultimo avanposto rimastogli, dichiarandosi "prigioniero politico" dell'Italia. Prima ancora lo aveva fatto autorizzando un intervento militare del proprio esercito svizzero per placare i rivoltosi di Perugia. La storia parla di massacri e saccheggi ad opera di quell'esercito nel 1859.
Insomma, non sto a dilungarmi, ma diciamo pure che questo Pio IX non scelse di certo la strada della diplomazia per difendersi dagli attacchi dell'epoca moderna.
Il suo atteggiamento difensivo e di contrattacco con tutte le armi a sua disposizione (minaccie, interventi militari, anatemi...) utilizzò anche la strada dogmatica compiendo una forzatura di metodo di cui ancor oggi paghiamo le conseguenze. La forzatura consiste nel procedere con un accentramento della figura del papa che progressivamente, ed in contraddizione con la storia della chiesa, doveva diventare più importante del collegio dei vescovi e delle stesse definizioni conciliari. Non solo il papa diventa più importante del Concilio, ma la Tradizione diventa parimenti più importante della Scrittura. Si tratta di novità costruite negli ultimi secoli, non certo inventate di sanapianta, che però solo ora arrivano ad essere definite con tanta sicurezza.
Vale la pena soffermarsi un attimo.

Il papa sul Concilio e la Tradizione sulla Scrittura
L'infallibilità del papa, seppur ristretta a questioni di fede, rende di fatto superflua l'istituzione Conciliare che sempre la Chiesa dalle sue origini ha convocato per le questioni più importanti, in particolare per le definizioni dogmatiche. L'infallibilità inoltre divide ancor più una cristianità già divisa. E' un netto passo indietro, per non dire una dichiarazione di guerra, nel percorso ecumenico con ortodossi e protestanti; uno sberleffo per la società laica che avanza, ma allo stesso tempo anche un richiamo irresistibile per i deboli, per coloro che desiderano una guida forte e direttamente eletta da Dio. Ed in tempi in cui mezza Europa è affascinata dall'ideologia marxista, non stupisce che l'altra metà sia tentata da una idolatrìa uguale ed opposta.
Ma non è tutto. Pio IX suggella anche come secondario il riferimento alla Scrittura, che sempre era stato, almeno fino al Concilio di Trento, un'àncora irrinunciabile alla verità rivelata. E' di soli due secoli prima la scomunica a Galileo perchè quanto osservava con il binocolo non era conforme a quanto scritto nella Bibbia! La questione forse apparirà a qualcuno non particolarmente rilevante, ma invece lo è, perchè mentre la Scrittura è qualcosa di enigmatico, ma ben preciso, un punto fermo dal quale per un credente è severamente vietato allontanarsi, la Tradizione è invece qualcosa di mutevole e maggiormente influenzabile da ciò che si è sempre detto o sempre fatto.
"Questo aprirsi della teologia cattolica al concetto del divenire potrebbe avere un interesse imponente, se il progresso fosse veramente un progresso nella verità, se fosse orientato nel senso di una maggiore chiarezza evangelica, di una maggiore profondità della fede; o se consistesse nello sforzo onde riesprimere l'eterno messaggio nel linguaggio dell'umanità del nostro tempo, superando barriere culturali e sociali e incomprensioni antiche e recenti. Ma nel nostro caso è purtroppo evidente che il progresso è in realtà una involuzione, è un nuovo passo avanti per una via errata; ed è impressionante dover riconoscere che i tre soli progressi dogmatici compiuti dalla chiesa cattolica in un secolo hanno nome: immacolata concezione, infallibilità papale, assunzione di Maria Vergine. (...) Non fa meraviglia che il riferimento alla tradizione biblica e patristica assuma un'importanza secondaria" tratto da Giovanni Miegge, "La Vergine Maria, Saggio di storia del dogma", Claudiana.

L'Immacolata Concezione
Or bene, ci spieghiamo come accanto alla resistenza politica e talvolta pure armata, il papa ne mettesse in atto un'altra che alla lunga risultò molto più efficace. Si occupò cioè delle masse, più che dei governanti. E diede alla gente quello che la gente da troppo tempo non trovava più nella religione.
Ecco che durante i suoi 32 anni di pontificato avviene proprio nella Francia rivoluzionaria, l'apparizione di una "bella signora" a Lourdes ad una fanciulla del posto, alla quale dice di essere la Immacolata Concezione. Siamo nel 1858, appena 4 anni dopo la definizione dogmatica dell'Immacolata Concezione. Il fatto non era stato del tutto scontato: si trattava del primo dogma della storia della chiesa proferito senza una consultazione conciliare, un procedimento un pò discutibile... ma ecco che di lì a poco ci pensa la Madonna in persona a dare il suo benestare.
Tutti conoscono l'impatto emotivo dell'evento di Lourdes fino ai giorni nostri, la ricaduta di tale apparizione in termini di conversioni, guarigioni, miracoli. Certo entrava in campo una madonna nuova, senza più il bambino tra le braccia e tantomeno in procinto di allattare. Una madonna in candide vesti, simbolo di purezza giovanile e femminile, disposta ad elargire grazie e miracoli come neanche Gesù aveva mai fatto prima, e soprattutto pronta a confermare dall'al di là di quanto affermava il papa nell'al di qua.
Penso di non essere il solo, se osservo che nel momento in cui le masse venivano affascinate dalla possibilità di riscattarsi tramite ideologie atee, come quella comunista, o tramite la rivoluzione industriale che sovvertiva l'ordine familiare e retributivo, non poteva esserci contro mossa più efficace di questa da parte del mondo cattolico: una apparizione rivolta ai poveri, alle donne, una voce che dall'alto abbinava il lancio di un modello di credente al femminile, al timore reverenziale per il pontefice, vero Cristo in terra.

Perchè scegliere Maria, per ri-affermare il primato di Pietro?
I tempi erano maturi perchè le donne cominciassero ad uscire da un ruolo marginale e subalterno della storia.  Vi erano ormai tutte le condizioni sociali e culturali affinchè il mondo femminile prendesse coscienza di sè e dei propri diritti. In Francia, durante la Rivoluzione francese, le donne avevano sottolineato come i diritti di libertà, eguaglianza e fraternità fossero validi anche per il genere femminile. Durante la rivoluzione industriale il passaggio dal lavoro artigianale (che le donne avevano sempre svolto silenziosamente in casa e senza essere retribuite) alla produzione industriale fece sì che le donne entrassero in fabbrica come salariate. Ciò rappresentò, pur in mezzo a condizioni di lavoro vergognose, un primo passo verso l'indipendenza dall'uomo. Un primo passo che già si intuiva avrebbe in seguito portato a parlare di diritto al divorzio, al voto, ad una parità sociale a tutti gli effetti.
In Gran Bretagna la pubblicazione dell'opera "Schiavitù delle donne", del filosofo John Stuart Mill, influenzata probabilmente dalle conversazioni con la moglie Harriet Taylor Mill, richiamò anche dall'estero l'attenzione sulla questione femminile e portò alla concessione nel 1870, dei diritti di proprietà alle donne sposate. In seguito furono introdotte le leggi sul divorzio, sul mantenimento e sul sostegno nella cura dei figli. Vennero introdotti i minimi salariali e i limiti relativi all'orario di lavoro.
La questione femminile era insomma una tematica nuova e "bollente" sia sul piano sociale che su quello religioso, essendo la donna la figura portante di una certa immagine di famiglia. Una donna non più sottomessa al marito, con uguali diritti, con pretesa di gestire un suo salario, il voto, con minore disponibilità a curare la casa e a fare figli, non poteva passare inosservata.
Nei paesi cattolici ovviamente la Chiesa si oppose senza esitazione al femminismo, in quanto appunto riteneva che distruggesse la famiglia patriarcale. Ma l'opposizione in sè stessa non portò tanto frutto, mentre risulterà molto più efficace l'introduzione di un elemento nuovo, capace di trainare la spiritualità popolare, convogliare le folle fatte soprattutto di donne bisognose di un modello femminile senza modificare il loro ruolo in una società maschilista, e riaffermare allo stesso tempo il filo diretto tra cielo e terra rappresentato dal sommo pontefice. L'elemento nuovo, come già detto, fu quello dell'Immacolata Concezione.
Pio IX dunque seppe cogliere l'insoddisfazione del mondo femminile e domarla come meglio si poteva con la figura di Maria. Aveva dei motivi risalenti all'infanzia che stavano alla base della sua personale venerazione per la madonna, infatti oltre ad averlo segnato già nel nome di battesimo (si chiamava Giovanni Maria Mastai Ferretti) si considerava letteralmente miracolato dall'epilessia nell'infanzia per l'intervento diretto della madonna.
Ecco che ci spieghiamo come nel giro di pochi anni siano accaduti fatti estremamente importanti che legano la figura di Pio IX a quella di Maria, con un legame che non si era mai visto prima e che sarebbe rimasto in eredità a tutti i papi ed i vescovi futuri che si rispettino. Abbiamo dunque la proclamazione dell'Immacolata Concezione nel 1854, la nascita dello Stato Italiano nel 1861, il Sillabo nel 1864, la breccia di Porta Pia nel 1870, come pure Il Concilio Vaticano I con la definizione dell'infallibilità del papa sempre nel 1870, e la promulgazione del famoso “Non expedit” nel 1874, con il quale  si sconsigliava la partecipazione di ecclesiastici e cattolici alla vita politica del neo stato italiano.

Questo Papa e questa Madonna sono davvero cattolici?
Non intendo fare lo storico. Sono andato a sfogliare qualche libro non per curiosità fine a sè stessa, ma partendo dall'oggi. E' la Madonna di oggi che mi pone domande. Da dove viene? Perchè quello sguardo acqua e sapone, senza rughe, eterna sedicenne senza forme? Perchè è sparito il bambino dalle sue braccia, le sue vesti sono diventate candide e bianche, le mani giunte? Perchè tante chiese a lei dedicate, tanti santuari, tante apparizioni, messaggi, lacrime, sangue... Perchè ogni documento papale e anche di congregazioni e gruppi di vescovi fanno riferimento a Maria, alla sua intercessione, alla sua protezione materna? E' davvero "cattolico" tutto questo? Aiuta l'avvicinamento alle chiese protestanti? Nelle Scritture e nel cristianesimo nascente era così importante la figura della madre di Gesù?
Beh, sarò blasfemo, ma credo che dietro a questo binomio "Papa-Maria", con un rafforzamento da parte di Maria della figura del papa ed una conferma da parte del papa della vocazione tradizionale della donna (casalinga, moglie, madre, o vergine consacrata), ci sia una idea di famiglia da proteggere, un'idea di donna, di matrimonio e di vocazione alla consacrazione, da risollevare. E' questo che interessa, questo è il compito assegnato alla Madonna dalla chiesa. Solo a titolo esemplificativo si provi a leggere questo testo magisteriale e mi si dica se mi sto sbagliando di molto:

Oggi, più ancora che nei tempi passati, i fedeli devono ricorrere ai mezzi che la chiesa ha sempre suggerito per condurre una vita casta: la disciplina dei sensi e della mente, la vigilanza e la prudenza per evitare l’occasione del peccato, la conservazione del senso del pudore, la moderazione nel godimento, le sane distrazioni e la preghiera assidua ed infine devono accostarsi frequentemente ai sacramenti della penitenza e dell’eucarestia. Soprattutto i giovani devono vivere con impegno la venerazione della Madre di Dio, preservata da ogni macchia di peccato originale, e seguire l’esempio della vita dei santi e di altri, in particolare di quei loro fratelli nella fede che si sono distinti per una casta purezza. Tutti devono avere in considerazione soprattutto la virtù della castità ed il suo raggiante splendore.
Congregazione per la Dottrina della Fede, 29 dicembre 1975

Se mi sono dilungato su Pio IX non è per riaprire un capito di storia, ma perchè oggi siamo ancora in quella situazione partita da lui, imbevuti di quella spiritualità e di quell'idea di papa, di madonna, e di donna. Pio IX, non dimentichiamolo, è stato proclamato beato nel 2000, da quel Wojtila che è stato il papa più mariano degli ultimi secoli, il cui motto papale era "Totus Tuus" (rivolto a Maria) e durante il cui pontificato si è verificata una vera esplosione di apparizioni e statue della madonna miracolose. Wojtila è quello stesso pontefice che nel 1988, pochi anni dopo la legge italiana sul divorzio e sull'aborto, firma la Mulieris Dignitatem, il documento ecclesiale che in tempi moderni riaffronta la questione femminile esattamente come lo avrebbe affrontato Pio IX, con la sola introduzione della finta novità in cui si esalta la donna per il suo "genio femminile". Finta novità, perchè questo "genio" alla fine altro non è che una "naturale disposizione sponsale" che non significa altro, ancora una volta, che un richiamo a diventare moglie e madre, o madre in senso spirituale tramite la consacrazione verginale.
Mi si dirà che di fronte agli innumerevoli miracoli mariani solo chi non vuol vedere continua testardamente a non credere. Io rispondo che parimenti solo chi vuole credere, crede. E che una fede che si impone con evidenze tangibili non è più fede.
Sono decine di migliaia ormai, i messaggi che regolarmente la madonna rivela ad alcuni veggenti a Medjugorie dagli anni '80. Si può continuare a sopportare questa continua intrusione del divino nella storia? Se interviene, perchè anzichè venirci a dire quel che sappiamo già (pregate, convertitevi, obbedite al papa...) non dà una regolata a terremoti e tsunami? Perchè non fa finire le guerre? Perchè non fa nascere tutti sani e non elimina tumori e incidenti? Se non lo fa è perchè non è questo il suo modo di intervenire. Non è miracolandoci continuamente che pensa di amare questo mondo. Non è l'intrusione il suo metodo! E allora a che servono tanti presunti interventi dall'al di là? E perchè poi usare Maria e non intervenire direttamente? Non sarà che qualcuno se ne sta approfittando della buona fede di milioni di persone? E non sarà che con tutto il rispetto per chi in certi santuari si converte davvero e davvero si guarisce e cambia vita, dovremmo fare un passo indietro nei confronti di una Madonna che nel vangelo tace, sta nell'ombra e di cui gli evangelisti non trovano interessante descrivere il parto, la scelta di verginità, la mancata morte e l'assunzione in cielo?

giovedì 15 settembre 2011

Il paradiso da evitare


Ci sono messe che tranquillizzano le coscienze, e per la solo partecipazione calmano la paura che abbiamo verso un Dio che nel profondo crediamo cieco, spietato e vendicativo.
C'è un paradiso che è la morte del cristianesimo. Perchè distoglie dall'al di qua per concentrare tutte le nostre aspettative di gioia e di piena realizzazione in un fantastico al di là. Gesù ha promesso a chi lo segue il centuplo su questa terra, e poi anche la vita eterna. Mentre però della vita eterna non possiamo dire niente perchè nessuno è tornato mai dai morti per raccontarcene, sul centuplo qualche riflessione la si può fare.
Il centuplo altro non è che il modo per trasformare in un arricchimento personale quello che all'apparenza è un dono al prossimo e una rimessa per sè. Il centuplo è un godimento esagerato per atti semplici e apparentemente insignificanti, come dare da bere agli assetati, o andare a trovare i carcerati. Si può fare del bene per dovere, e non serve a niente. Lo si può fare per andare in paradiso, e non serve a niente. Lo si può fare godendone, quasi che nel farlo sia più quello che si riceve di quello che si da. E questo serve, riempie la vita mia e di conseguenza anche degli altri.
Certamente Gesù parla anche di un al di là. Anzi lui pretende di farci conoscere il Padre. Ma l'originalità del suo messaggio non sta tanto nella spiegazione di come sono organizzate le cose dopo la vita. Quello che annuncia stravolge questa vita, non l'altra. Già qui è possibile partecipare di quella logica di dono che Lui ci dice essere la logica di Dio. L'amore, fino ad arrivare al dono di sè e alla perdita della propria vita fisica, ripaga una zona dell'animo umano che altrimenti nessun denaro, nessun potere, nessun piacere terreno può minimamente acquietare. E' la zona dello spirito, del bisogno di senso, che ogni uomo si porta dentro.
Vivere da risorti significa vivere questa vita, non l'altra, da rinati, come persone la cui felicità non dipende da questo mondo, come persone che non temono la morte e risvegliano vita e voglia di vivere ovunque vadano.
Vivere da credenti non significa dare un assenso intellettuale di fede in qualcosa che non si vede. Immaginarsi una bella trinità, una madonna, un paradiso, un inferno e "crederci". No, troppo comodo credere così. Così san credere tutti. Ci fa sentire a posto con "quello lassù", e una volta sistemato lui possiamo tornare alla nostra mediocrità. Se credere si riduce a questo, bene fanno quelli che non credono affatto.
Credere è un moto dello spirito. E' buttarsi in questa vita senza aver tutto chiaro, senza fare troppi calcoli e senza soffrire troppo per questa incertezza. Tutto questo perchè si percepisce la fiducia che Lui ha in noi. "Lui" è vivo in mezzo a noi nel senso che qualcosa di suo, di Gesù, è rimasto nonostante ad un certo punto se ne sia andato. Questo intendono i discepoli quando lo proclamano risorto. Questo "qualcosa", se ha la capacità di infiammare le mie azioni, di dirigere le mie scelte, di far si che mi spenda in una certa direzione non dettata dall'egoismo, è a ben pensarci più importante di una risurrezione del suo corpo, che in fondo, fin chè non saremo in quel fantomatico al di là, lascia il mio al suo destino.
Lo so, sto diventando un pochino eretico, ma preferisco essere sincero con me stesso, che continuare a sottoscrivere un "credo" solo per paura di quanto mi potrebbe capitare dopo la morte.

domenica 28 agosto 2011

Mito e realtà

C'è qualcosa che non quadra nel bisogno di separare le fonti storiche, quindi vere, quindi affidabili, quindi portatrici di significato e senso, dalle altre genericamente dette "mitologiche", quindi false, quindi fuorvianti, frutto della fantasia eccessivamente fervida di qualche stregone di un lontano passato. C'è qualcosa che non va, innanzi tutto perchè il racconto "storico" è sempre segnato dal punto di vista di chi racconta, quindi limitato e parziale, e sia perchè a ben guardare il racconto mitologico è pieno di cose vere e non va affatto disprezzato. 
Il mito ha sempre accompagnato l'uomo nella sua angoscia esistenziale. Gli ha permesso di uscire dal tempo per riunirsi all'origine di tutto: una origine capace di spiegare perchè l'oggi è così come lo vediamo. Ecco allora che il mito ci fa sognare un nuovo inizio, una nuova gioventù, ci permette di "staccare" da una quotidianità muta, banale, ripetitiva ed inesorabilmente direzionata verso la morte. Potremmo dire che in un racconto mitologico non abbiamo la cronaca precisa e dettagliata di un determinato periodo o evento storico, ma abbiamo in compenso l'esperienza interiore che i protagonisti di quel lontano evento hanno vissuto. Un'esperienza raccontata con un linguaggio colorito, fantasioso, ma comunque densa di senso, almeno per loro.
Il mito infine è segno che all'uomo dell'antichità non interessa la storia, vista come un assurdo susseguirsi di dolori, ingiustizie, perdite. Fin qui quello che ho capito leggendo "Mito e realtà", "Il mito dell'eterno ritorno" e "Trattato di storia delle religioni" di Mircea Eliade (consiglio i primi due, veloci e di facile lettura).
Ora, perchè questo interesse per il passato?
Potremmo fregarcene, accontentarci di ricevere poche certezze "cronologiche" dalla storia, sensonchè il Cristianesimo ha la pretesa di essere fondato su un fatto storico ben preciso, e non accetta, almeno nella versione cattolica, di scendere a compromessi.
Già con l'Ebraismo il rapporto con la storia aveva cominciato a cambiare. Progressivamente la storia acquista importanza e diventa il luogo della manifestazione di Dio. La questione diventa di cruciale per noi cristiani che fondiamo la nostra fede su testi, i vangeli, che risentono fortemente di un linguaggio mitico, ma allo stesso tempo pretendono la storicità concreta, la "carne", del Cristo.
Arroccarsi sulla storicità dei miracoli quando si hanno in mano testi ripresi da più mani, in epoche diverse, che raccontano lo stesso episodio spesso contraddicendosi a vicenda, non porta alcun frutto. E allora come si fa?
Lasciamo un attimo da parte i vangeli e concentriamoci su di noi, sul nostro concetto di "vero" e "attendibile". Culturalmente siamo figli di una contrapposizione tra chi da una parte definisce i vangeli testi di storia e "quindi" credibili, e chi dall'altra invece, non ritenendoli attendibili da un punto di vista storico, li scarta come racconti privi di qualsiasi valore. Se da una parte è importante definire cosa c'è di storico nei vangeli, dall'altra mi sembra opportuno sottolineare - e questo lo fanno in pochi - che anche laddove il testo risentisse di un linguaggio mitico non per questo dovremmo chiuderlo e metterlo nello scaffale delle favole per bambini.
E' fondamentale per la chiesa primitiva insistere sulla storicità di Gesù Cristo, sulla incarnazione e sulla resurrezione della carne. Questo non può voler dire che i vangeli siano una "fotografia" obbiettiva delle azioni e delle parole di Gesù di Nazaret. Non si tratta di una fotografia esatta del passato, ma neanche di un disegno frutto di allucinazione collettiva. Come ci poniamo noi oggi verso quella pretesa storica così evidente nelle lettere paoline, nei testi dei padri, nei primi concili? Cristo è solo uno dei tanti nomi del nostro bisogno religioso, o ha senso credere che in quest'uomo fosse presente qualcosa di diverso?
Rovesciando la questione: l'incarnazione e la resurrezione devono per forza essere andate letteralmente come dicono i vangeli, che non sono libri storici nel senso moderno, oppure sono "esperienze" interiori, o collettive, raccontate con quello specifico linguaggio e possono avere per noi un senso senza che per forza le intendiamo come interventi contro natura direttamente compiuti da Dio?
Come si sarà capito anche da precedenti post non ho la soluzione, ma insisto perchè il tema mi sembra cruciale e penso che una chiesa che a parole ha tanto rispetto per la ragione dovrebbe aiutare i credenti a porsi domande più che a chiedere fiducia cieca nei propri documenti.

Bultmann e il manifesto della demitizzazione
Rudolf Bultmann, teologo protestante, ha tentato una radicale demitizzazione del Nuovo Testamento. Riporto alcuni passaggi che da soli rendono l'idea delle "pericolose" conseguenze a cui è possibile arrivare.
"La raffigurazione neotestamentaria dell'universo è mitica. Si considera il mondo articolato in tre piani. Al centro si trova la terra, sopra di essa il cielo, e sotto gli inferi. Il cielo è l'abitazione di Dio e delle figure celesti, gli angeli; il mondo sotterraneo è l'inferno, il luogo dei tormenti. Ma non perciò la terra è unicamente il luogo dell'avvenimento naturale quotidiano, delle sollecitudini, cioè, e del lavoro dove regnino l'ordine e la regola: è anche il teatro d'azione delle potenze soprannaturali, di Dio e dei suoi angeli, di Satana e dei suoi demoni. Le forze soprannaturali agiscono sugli avvenimenti naturali, sul pensiero, sulla volontà e sull'operare dell'uomo; i miracoli non hanno nulla d'insolito (...). Ora, quando leggiamo i vangeli o il resto del Nuovo Testamento, non possiamo onestamente dimenticare che queste cose sono nella mente di chi scrive. Questa per l'autore, è la normalità. E per quanto crediamo nel Dio di Gesù Cristo, non potremo mai arretrare di un passo su questo.
Continua Bultmann: "La rappresentazione dell'evento della salvezza, che costituisce il contenuto specifico dell'annuncio neotestamentario, è coerente con questa immagine mitica del mondo (...) Quello neotestamentario è tutto un discorso mitologico, e i motivi in cui lo si può scomporre sono facilmente riconducibili alla contemporanea mitologia dell'apocalittica giudaica e del mito gnostico della redenzione. Ora in quanto discorso mitologico, non è credibile dagli uomini di oggi giacchè per costoro la figura  mitica del mondo è dissolta". 
A me questa pagina sembra veramente come il lancio di un masso nello stagno. Date queste premesse non possiamo non chiederci se il Nuovo Testamento "contenga una qualche verità che sia indipendente dalla visione mitica del mondo; in tal caso compito della teologia sarebbe quello di demitizzare il messaggio cristiano"
Così Italo Mancini ripropone la questione di Bultmann:
"Possiamo determinare meglio l'interrogativo cruciale, o per esprimerci con le parole di Bultmann, "la questione bruciante". Eccola: qual'è il significato della predicazione di Gesù e della predicazione di tutto il Nuovo Testamento per l'uomo moderno? Visto che le concezioni mitologiche sono sorpassate e soppresse, un rapporto con il Nuovo Testamento sembra non potersi dare che in uno dei tre sensi seguenti:
1. O continuare a credere nella vecchia maniera facendo un difficile e sempre meno consentito sacrificium intellectus, rinunciando a comprendere per accettare ciò che non possiamo onestamente tenere per vero, semplicemente perchè tali rappresentazioni si trovano nella Bibbia (...)
2. Oppure riprendere il motivo riduttivistico della scuola liberale per cui si ritiene valido quanto Cristo ha inculcato sulla società spirituale, sulla interiorità e dirittura della coscienza, sulla vita etica, rinunciando alla sua predicazione escatologica, al suo annuncio di salvezza (...) 
3. Oppure (...) attuare il gran disegno ermeneutico di leggere dentro al mito una comprensione autentica dell'esistenza che non sia soltanto dottrina inefficace (...). Se è così dobbiamo abbandonare le rappresentazioni mitologiche proprio perchè vogliamo conservare il loro significato più profondo. Questo metodo (...) lo chiamo demitizzazione. Lo scopo non è quello di eliminare gli enunciati mitologici, ma di interpretarli."

Mi sembra evidente che l'unica strada percorribile per l'autore, ma anche per me, sia l'ultima. Si apre qui il problema ermeneutico, cioè di cosa significa interpretare, come si fa, chi lo può fare. Però, se almeno potessimo dire, come cattolici, che questa è l'unica pista sensata da percorrere, sarebbe già un passo in avanti enorme.
L'annuncio della resurrezione, oggi, non dipende in definitiva solo dalla credibilità della chiesa, dalla coerenza dei suoi uomini di spicco, dalle buone azioni. Un cattolico "ragionante" dovrà prendere in mano anche la parte teorica - dottrinale che lo definisce in quanto cattolico e chiedersi oggi a che serve questa resurrezione "storica" di Gesù. In quale luogo fisico è ora, se è risorto con il corpo, oppure, se si rinuncia ad un atteggiamento miracolistico - non alla fede! - quale messaggio di resurrezione può essere svelato nella reale morte in croce dell'uomo Gesù.Certo. Si rischia l'eresia, la caduta in posizioni gnostiche, ok. Ma "credere" rinunciando all'intelletto non ci fa certo grande onore.

Nota: Le citazioni di Bultmann e di Mancini sono prese dall'inizio di "Nuovo Testamento e mitologia", di Rudolf Bultmann, Ed. Queriniana, 2005.

sabato 13 agosto 2011

Il Gesù non cristiano di Flores D'arcais


Santo pudore
Vi è una sorta di santo pudore nel mondo cattolico ogni qualvolta qualche laico vada a toccare ciò che abbiamo di più sacro, ossia Gesù, la sua condotta di vita, l'interpretazione delle sue parole e delle sue azioni. Quasi a dire: "questo" è nostro, parlate di tutto quello che volete, voi laici, prendetevela pure con preti e Vaticano, ma non offendete il nostro sentimento religioso. Un pudore diffuso, culturalmente radicato, del quale spesso sono convinti gli stessi non credenti. Un pudore che però non fa bene a noi cattolici, perchè non ci permette di discutere liberamente di qualunque argomento, perchè ci spinge a leggere e comprendere i testi evangelici, e parimenti quelli del magistero, in modo acritico e sottomesso. Quasi che la nostra singola capacità di pensiero debba starsene da parte di fronte ad argomenti grandi quali l'incarnazione, la resurrezione e via via tutti i dogmi cattolici fino all'infallibilità del papa (che conferma, appunto il precetto di non discutere e non mettere in discussione quanto la chiesa dice).
Non fa bene, dicevo, perchè non è con il sacro timore che si rispettano le verità di fede. Al contrario, se sono davvero vere, se soprattutto lo sono per noi singolarmente, allora non ci dovrebbe essere nessun timore, nessun riguardo verso ciò che, per la sua spinta interiore, si sa difendere da solo.

Il Gesù non cristiano di Flores D'arcais
Tutto questo mi è venuto in mente nel vedere la reazione all'uscita del testo di Paolo Flores D'arcais intitolato "Gesù. L'invenzione del Dio cristiano" edito recentemente da ADD. Basta un titolo provocatorio per gridare allo scandalo, quasi che il cristianesimo non fosse in sè stesso scandaloso, "follia per gli ebrei e stoltezza per i greci" come diceva lo stesso san Paolo.
Vi sono autori attuali come Augias, o peggio ancora come Odifreddi, che lanciano provocazioni belle pesanti, spesso guidate da una sorta di "oscurantismo" laicista, ma anche quelle non sono opere che si purifichino con il metodo del rogo o della censura. Si leggono, e si prendono per quello che sono. Un laico ovviamente non ci aiuterà a crescere nella fede, ma è sempre possibile che ci offra un punto di vista "esterno", non influenzato dal sentimento religioso del credente e quindi utile, là dove condotto con metodi onesti, per comprendere meglio temi per noi così importanti. Un cristiano incamminato e profondamente attratto dal proprio cristianesimo legge tutto, non teme nulla.
Non sono particolarmente innamorato alla figura di D'arcais, però ho letto il suo testo e devo ammettere che, al di là dell’essere d’accordo o no con lui, pone una questione importante, sulla quale sarebbe bene andare a fondo, come esseri pensanti e, appunto, anche come cristiani.

Duello fede-ragione
L'autore sostanzialmente dice che la fede cristiana, per chi la accetta, non può avere fondamenti storici, e critica il papa attuale non quando fa discorsi sulla fede (è il suo mestiere in fondo) ma quando pretende che questi siano “ragionevoli”. Quando cioè il papa pretende di dimostrare la sua fede come la cosa più logica, razionale, fondata storicamente, archeologicamente, filologicamente, è allora che bisogna fermarlo (dialetticamente) e dirgli “resta nel tuo campo”.
Fede e ragione hanno fatto a pugni per secoli. Ratzinger propone di rappacificarle portandole entrambe sotto le sue ali protettrici. Lui è indiscutibilmente il difensore della fede cattolica, ma ora si propone anche come garante della ragione. Questo, per D’arcais, e anche per me, non è corretto. Portare la ragione in sè completamente dalla parte della fede (una fede tra le tante, oltretutto) significa solo spostare il conflitto, non risolverlo: lo scontro che prima c'era tra fede e ragione ora, con il sistema Ratzinger, si sposta tra credenti e non credenti, anzi si acuisce, perchè nessun ateo potrà accettare silenziosamente che la sua scelta di ateismo sia meno ragionevole di quella del credente.
Il fatto poi che il libriccino di D’Arcais non sia così bene documentato o approfondito e non tutto condivisibile, anche per il tono screditante e deridente verso la ricerca teologica cattolica, non significa che sia tutto da buttare.

In difesa della fede
Beh, dopo l'elogio però ci vuole anche la critica.
Traspare nei toni di D'arcais quasi il beffeggiamento per una fede che, spogliata dello scudo della ragione, rimane qualcosa che obiettivamente possono accettare, nel 2000, solo degli allocchi. E' lo stesso errore che fa Ratzinger. Chi si appropria della ragione implicitamente dice, "gli altri che la pensano diversamente da me non sono ragionevoli". E' il giudizio che implicitamente si intuisce nelle parole del papa ed è il giudizio che con ancora meno tatto emerge dalle conclusioni di D'arcais, nella barricata opposta. Insomma, non c'è niente da fare, chi non ha dalla sua parte la ragione è per forza di cose uno che sragiona, un bonaccione, un ingenuo.
Io credo che se si rimane su questo piano non se ne esce: fede e ragione sono in sè stesse oggettivamente inconciliabili. E allora? Allora penso che l'unica via d'uscita non sia nel cercare una formula che metta d'accordo le due cose, ma, dopo aver riconosciuto la loro inconciliabilità, spostare nella persona il luogo in cui le due idee si contendono o eventualmente trovano un accordo. Detto altrimenti: fede e ragione non esistono, sono parole: togli l'uomo dal mondo ed ecco che spariscono anche fede e ragione. Quello che esiste sono io, essere umano che posso avere fede e usare la ragione, e nella sintesi che ne emerge vi è l'accordo, in me come persona, non nei concetti.
Vi è un altra critica che vorrei fare. Se da una parte chi ha fede non deve pretendere di essere l'unico essere raziocinante che cammina sulla terra, dall'altra, chi non ha fede, non dovrebbe a mio parere giudicarla così malamente, così superficialmente come spesso si fa, e come anche D'arcais fa. Chi ha fede non è superiore a chi non ce l'ha, ma questo non significa che la sua fede sia un infantilismo inutile, residuo di un passato lontano. L'esperienza di fede è grandiosa, travolge, cambia le persone. Salva la vita o permette di donarla. Non si può ridicolizzare una simile forza. La si guardi pure con gli occhi della ragione, ma ci si fermi però, là dove la ragione si ferma, e si sopporti la frustrante mancanza di giudizio verso ciò che non si conosce a fondo. Non si può dire "il papa parli pure di fede" come se la fede del papa fosse simile a quella di chi crede negli asini che volano o nell'oroscopo o nella presenza degli extraterrestri sulla terra. Questo passaggio non è intellettualmente onesto, perchè la chiesa con la sua storia ha prodotto uomini che hanno cambiato il mondo coi fatti, uomini mossi da quella cosa inspiegabile e irrazionale che noi credenti chiamiamo fede e gli altri la chiamino pure come vogliono, ma per favore, con il rispetto che si deve a tutto ciò che è umano.

giovedì 4 agosto 2011

Cirillo d'Alessandria

Il film Agorà mi ha spinto a conoscere meglio la figura del vescovo Cirillo d'Alessandria, santo, padre della chiesa e proclamato anche Dottore della chiesa appena poco più di un secolo fa.
Cirillo è nato nel 370 e morto nel 444 dedicando la sua vita alla diffusione del cristianesimo e alla definizione di alcuni dogmi cattolici, come quello sulla doppia natura (umana e divina) di Gesù e quello che definisce Maria "Madre di Dio" (la Theotokos).
Questo è quello che avevo imparato a scuola, peccato non mi avessero detto che questo Cirillo, così santo, difensore della Verità, ed influente nello sviluppo della teologia cattolica dei secoli seguenti, fosse un pazzo sanguinario fuori di testa.
Lasciamo da parte il film, sconvolgente e assolutamente da vedere, dove il vescovo passa senza mezzi termini per un fondamentalista sanguinario; Cirillo va compreso certamente nel suo tempo, cosa non di poco peso e sulla quale non posso soffermarmi qui. Fu un epoca in cui il cristianesimo, appena uscito dalle catacombe, rischiò fortemente di cadere nella tentazione della vendetta, soprattutto favorita dal fatto di essere diventata nel 392 religione di Stato. Violenze spinte da ragioni di appartenenza religiosa si perpetrarono verso ebrei, pagani, ma anche all'interno della chiesa, verso quei rami di pensiero che non andavano nella stessa direzione. Fu un tempo in cui non solo Cirillo, ma molti suoi colleghi vescovi si lasciarono andare a lotte armate in nome della verità.
Cirillo cavalcò ampiamente il disagio del suo tempo e in breve divenne miccia, innesco ed esplosivo di una situazione di convivenza non facile da gestire. Arruolò uomini dalla dubbia moralità, "vere bestie" li ha definiti qualcuno, affinchè si imponesse con la forza il cristianesimo ed il suo specifico cristianesimo. Perseguitò in Alessandria d'Egitto gli ebrei ed i pagani fino quasi ad annientarne la presenza, è molto probabile che sia stato il mandante dell'omicidio di Ipazia, sublime filosofa e astronoma contemporanea, e personaggio principale del film Agorà.
Tra le fonti di queste informazioni c'è Socrate Scolastico, che era un cristiano e non aveva quindi alcun interesse a parlar male della chiesa.
Anche il "dibattito" teologico con il vescovo di Costantinopoli Nestorio, risoltosi a suo favore nel Concilio di Efeso, sembra essere stato condotto con mezzi del tutto discutibili. Erano tempi, quelli, in cui due vescovi che discutevano sulla verginità di Maria potevano arrivare non solo a scomunicarsi a vicenda, ma anche ad imboscate, e minacce fisiche tutt'altro che simboliche.

Or bene, quest'uomo, così influente nella chiesa e nella storia della chiesa, non può non farmi riflettere.
Diciamo che non mi meraviglia tanto il singolo uomo con i suoi eccessi, quanto piuttosto che tra i santi proclamati tali dalla chiesa vi siano personaggi di questo genere. Speravo che almeno tra i santi ci fosse un minimo di discernimento.
Cirillo tutt'oggi è considerato un difensore della fede, un "dottore", un modello a cui guardare ed un insegnante dal quale imparare. E' su questo che vorrei puntare l'attenzione. L'attuale papa ne ha fatto l'elogio in una recente udienza, nel 2007. Chiamare santo un uomo violento, per quanto fosse normale la violenza nel suo contesto, non mi sembra molto opportuno, tanto più che i santi vengono elevati agli onori degli altari dalla chiesa perchè diano l'esempio, ed illuminino l'agire del popolo.
Una seconda riflessione viene dall'osservare che nella persona più ortodossa, più allineata alla tradizione cattolica e propensa a difendere la Verità, conviva un atteggiamento non cristiano. Cirillo è cristiano nei contenuti dottrinali, anzi è protagonista nella costruzione di quei dogmi che oggi proclamiamo nel Credo, ma allo stesso tempo, per difendere quei dogmi, ha commesso atrocità, ha spinto ad usare la spada, ha annientato fisicamente chiunque la pensasse diversamente. E l'ha fatto nel cuore pulsante della tradizione greca, nella città ospitante la biblioteca più importante della storia, dove il dibattito socratico e la speculazione intellettuale erano ben radicati.
Questa distanza tra verità e misericordia, che al contrario di quanto auspica il salmo 84 non si incontrano affatto, mi lascia veramente senza parole, e mi fa pensare che si possono dire cose sacrosante e non costruire nulla di buono, come pure si deve prendere atto che non sempre il vero sta unito al buono e al bello, come insegna la filosofia di Tommaso d'Acquino, ma talvolta le cose sono un pò più complesse. Trovo molto più costruttivo il passaggio della Unitatis redintegratio di Giovanni Paolo II (1994) che così commenta le dispute dottrinali della storia della chiesa: «Le controversie del passato hanno condotto ad anatemi pronunciati nei confronti di persone o di formule. Lo Spirito del Signore ci accorda di comprendere meglio oggi che le divisioni così verificatesi erano in larga parte dovute a malintesi». 
Mi sorprende sempre come nell'epoca di internet si riesca a rimanere ignoranti esattamente come quando le notizie non circolavano affatto, per cui oggi accade che di ogni cosa, anche eventi storici, viene detto tutto ed il contrario di tutto, e non sappiamo mai con certezza che pesci pigliare. Se un tempo le cose non si dovevano sapere, oggi regna una tale babele di linguaggi e ideologie che viene voglia di non sapere affatto. Così ovviamente accade anche per Cirillo, santo per alcuni e genocida per altri. Curiosa e degna di nota mi è parsa la posizione del famoso sito Pontifex, di stampo tradizionalista, che non nega la contestabilità delle sue modalità d'azione, ma così le giustifica:
"Oggi abbiamo vescovi buoni, miti, umili e pastori misericordiosi, ma allora non era possibile avere un capo religioso di questo genere, perché le esigenze erano diverse."
Io posso capire che ogni persona và vista e compresa nel suo contesto, ma da qui a farla santa e "dottore" ... ce ne passa.
Credo davvero che misericordia e verità necessitino l'uno dell'altra. E credo che quando la verità, qualunque verità, cede alla tentazione di bastare a sè stessa, lì inizia anche la sua corruzione.

venerdì 22 luglio 2011

Sete di Cristo

Ecco il punto: la nostra rivoluzione-per deve essere, sì, come il granello di senape, ma deve essere socialmente efficace. E, a tal fine, è FONDAMENTALE avere idee di un certo spessore, che non sto qui ad indicare. Il fatto che tu ti trovi bene a lavorare con "chi fa", non basta a definire ciò che fa. Alzare la voce, denunziare, eccetera, vale, e come!, ma dipende dal complemento oggetto. Per me quello che noi dovremmo fare è essere presenza storica che non cerca spazi e pubblicità, ma si impegna ad essere buona semente per abbattere il muro di un'opinione pubblica deformata da tante idee sbagliate su ciò che è saacro e quindi sul valore del sacerdozio (che, tanto per dire un particolare non secondario, non può essere solo maschile con l'appendice del femminile!), sul rapporto Popolo di Dio e Chi, in esso, esercita un ministero. Soprattutto bisogna avere in mente a caratteri cubitali che la nostra è una questione di FEDE...
Ausilia Riggi, blog "Conversazioni"

Concordo sull'importanza di "avere idee di un certo spessore". Quelle idee, per quel che ho imparato, sono ciò di cui fuori e dentro la chiesa abbiamo tutti davvero bisogno. Non si faranno strada con la stessa facilità con cui incuriosiscono temi superficiali e prurigginosi. Certo, se ci mettiamo a parlare di preti pedofili facciamo il pieno di ascolti, ma a che serve? Non lo fanno già in tanti? Non si cade nella ovvietà? A noi spetta un compito diverso e unico. Il nostro confronto, la nostra visibilità e la nostra stessa vita devono puntare su uno "specifico" ancora inesplorato. E credo che fare luce su questo angolo buio sia un vero servizio che verrebbe utile non solo a noi personalmente, ma alla chiesa intera.
Perchè, in fin dei conti, siamo finiti ai margini della chiesa? Perchè tanti sono proprio usciti, altri restano scegliendo il silenzio, altri ancora lottano tenacemente su terre di confine? Chi non cercava Cristo prima, ma solo la propria affermazione personale, continua a farlo anche da dissidente, ma gli altri, quelli di noi davvero attratti dai contenuti di fede, cosa hanno in comune... se non la sensazione che proprio quella fede fosse a rischio?
Ecco, la fede a rischio, questo ci accomuna, questo mi interessa. Posso rinunciare a preti perfetti, a preti sposati, a laici investiti di cariche ecclesiastiche di rilievo, ma non posso rinunciare alla fede.

Guardate, non sto facendo una predica o un discorso di principio. Sono arrivato a capire questo non in seguito a chissà quale lettura teologica, ma analizzando me stesso.
Per quel che mi riguarda io ho imboccato una strada, giusta o sbagliata, che mi sembra porti buoni frutti. Non mi chiedo più quello che per me non è un problema, non perdo più tempo in questioni teologiche o filosofiche che non toccano il mio cuore. Io sono interessato sostanzialmente ad andare al fondo dei miei bisogni. Capitemi, non in senso egoistico, per la soddisfazione di bisogni superficiali. Sono interessato ad approfondire cosa ha senso, cosa riempie la vita, non quello che è un argomento di moda, o un problema per la società, o per la chiesa. E il mio approccio ai vangeli e alla fede cristiana parte da questo e a questo deve arrivare, altrimenti lo butto, senza finti pudori. La mia relazione sentimentale, ad esempio, non mi pone problemi morali come ne pone al magistero. Non siamo sposati, questo per la chiesa è un problema, per me no, e quindi non perdo tempo a giustificarmi. So che la chiesa giudica in un certo modo la mia relazione, glielo lascio fare in santa pace. Non è verso questo riconoscimento esterno (il sacramento) che voglio orientare le mie energie. Ora, la famiglia, il celibato, la scarsità di preti, la morale sessuale... per me sono tutti problemi che servono giusto a fare un po' di ginnastica mentale. Non sono problemi che avverto nel profondo e quindi se li affronto rischio di fare chiacchiere, per un verso o per l'altro.
Un mio problema vero, invece, è Cristo: come rapportarmi a lui, come intendere questa relazione, cosa significa avere fede, cosa lasciare che dipenda da questa fede e cosa no. Non è una cosa da poco, è una questione molto concreta, perchè da essa dipende come mi rapporto con il prossimo, come mi occupo o disinteresso di problemi sociali, e questo mio modo di stare al mondo a sua volta crea domande e problemi alle persone che incontro, ed ecco, questo porta visibilità, cambiamento. Questo per me, è spiritualità, qualcosa che parte dalle mie più profonde domande e trova riscontro in risposte che solo la fede può dare. Di questo mi piacerebbe parlare con chi ha inciampato all'interno della chiesa, con chi porta in sè qualche ammaccatura, qualche ferita, perchè queste persone, questo "noi" ha qualcosa da dire sulla propria esperienza di fede e non lo dice. Chi se ne frega del celibato opzionale, a quello i preti ci arriveranno da soli... e quel giorno poverette le loro mogli se insieme alla legge sul celibato non cambierà anche il modo di fare il prete! No, non è questo che cambia le persone, ma l'incontro con Cristo, e non parlare dell'incontro con Cristo per parlare di celibato, scusatemi, mi sembra un'idiozia.

venerdì 8 luglio 2011

L'esserci inutile


Il metodo. Ho iniziato questo blog dicendo che nella chiesa non conta tanto cambiare "le cose" quanto il metodo. Si può fare tutto e il contrario di tutto, ed essere o non essere cristiani.
Il metodo del cristiano è la persona. Il prete di questa chiesa non può vedere le persone, se lo fa deve andare contro corrente, contro il suo stesso mandato. Alcuni ce la fanno, altri rinunciano all'abito, altri ancora, i più, rinunciano alla persona.
Quando diciamo "persona" capita che immaginiamo una determinata persona. Assennata, coerente, in cerca di Dio. E invece la persona, il più delle volte è quanto di più banale e stupido si possa incontrare. E' una bottiglia scolata, è falsità spudorata. E' puzza, volgarità, ignoranza, carne flaccida che rimanda la sua fine di qualche ora o qualche giorno. Davvero vale la pena vivere per questo? Davvero Dio ha assunto questa carne? Io amo le vette dello spirito, amo "sentire" emozioni non riducibili a parole. Amo confronti profondi, la musica che tocca l'anima, l'arte, il dono di quanto si ha di più caro... ma l'uomo, l'uomo banale, che non capisce, che non rischia, che non cambia, questo uomo faccio fatica ad amarlo. Bisogna odiare per capire l'amore. Bisogna disprezzare il prossimo, desiderare la sua fine, la sua malattia, sfortuna, disgrazia, per capire Cristo. Bisogna fare a botte prima di parlare di pace. Altrimenti facciamo prediche. L'anticristo si alimenta di prediche. Ne gode ampiamente. Predicare l'irraggiungibile è un modo come un altro per evitare ciò che è raggiungibile.
Il metodo della chiesa alternativa è la presenza, non la predica. L'esserci. L'esserci senza risultati, senza tornaconto, l'esserci inutile.

martedì 5 luglio 2011

IL DIO DEGLI EXTRATERRESTRI


Qualche anno fa ho partecipato su un blog ad un dibattito un po’ insolito: Dio ed extraterrestri. Lo riporto perché a mio parere esprime due modalità opposte di affrontare la questione sulle quali sarebbe bene andare a fondo, non tanto per prepararsi all’incontro con gli extraterrestri, quanto per andare alla radice del nostro atteggiamento verso chi è “diverso”. Mauro
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IL POST diceva

Che impatto avrebbe nella vostra vita di fede la scoperta di forme di vita extraterrestre? Argomento che continua ad intrigare e che ora è stato oggetto di un serissimo studio da parte del CTNS dell’università statunitense di Berkeley. Il campione del medesimo era particolarmente rappresentativo in quanto costituito da 1325 credenti di tutto il mondo professanti le più varie religioni: cattolici, protestanti, ortodossi, mormoni, ebrei, musulmani e buddisti.

Il dibattito che ne è seguito:

Mauro - Se fossi un extraterrestre andrei anch’io al CTNS di Berkeley e chiederei ai 1325 credenti (in particolare ai cristiani) di questa terra se pensano che Dio si sia incarnato solo qui o se possono accettare che contemporaneamente si sia manifestato materialmente anche in altri mondi. E se questo non essere più al centro dell’universo, neanche da un punto di vista religioso, fa loro qualche problema…

Mor. - In effetti quella dell’incarnazione è proprio una bella domanda. In ogni caso non sentirsi al centro dell’universo fa sempre bene (extraterrestri o no).

Ic. - Ma perché dovrebbe essersi incarnato da qualche altra parte? L’incarnazione e la redenzione investe l’intero universo. Poi Dio può fare quello che gli pare, non pongo io certamente i limiti…
Ma anche ragionando. Dio si è fatto uomo in Palestina 2000 anni fa. A quel tempo la Terra del Fuoco, per dire un posto distante, era molto più lontano, più “extra” di marte oggi, e di qualche altro sistema solare. La lontananza e la momentanea non comunicazione non costituisce un problema. E Virgilio e gli uomini nati prima? il tempo antecedente non era ancora più distante e senza comunicazione? e quelli che non hanno mai sentito parlare di Cristo? Piuttosto quando saremo di fronte a ET sarà subito da predisporre un apposito ufficio in curia per l’evangelizzazione degli extraterrestri.

Mauro - Scusa ma tra la terra del fuoco e miriadi di pianeti abitati che stanno a milioni di anni luce da noi (non marte…) c’è una bella differenza. Tu crederesti ad un extraterrestre che venisse a dirti “guarda che si è incarnato da noi, in un altra galassia, non da voi”? Io no. E anche lui farebbe lo stesso con me.

Ic - Io dico solo che se con un extraterrestre ci comunico questo mi è diventato vicino, i milioni di anni luce non fanno più problema come a un certo punto della storia non fece più problema l’oceano. se poi dicono che si è incarnato da loro, si sta a sentire per vedere comunanze e differenze e poi ognuno giudicherà. ma anche questo è una cosa già vista perché di Messia ne hanno sfornato ogni angolo della terra.
Quello che voglio dire è che l’extraterrestre non pone un salto al problema, ma solo un’estensione del problema rimanendo dentro lo stesso sistema di presupposti. Cristo oggi, ieri, sempre. L’eterno. Figurati se fa problema qualche milionata d’anni luce. Il problema sarebbe solo logistico.

Mauro - Scusa Ic ma non sono proprio d’accordo con te. Tu dici che la distanza è una estensione del problema che nella sostanza non cambia. Invece cambia. Perchè un ET non è fatto come me e te. Ha un altro corpo, un altro modo di comunicare, di conoscere, di amare. Magari non ha braccia nè gambe e vola. Faccio ipotesi fantastiche solo per dire che la distanza e le condizioni ambientali cambiano parecchie cose. Se i gatti avessero coscienza e intelligenza potrebbero accettare che Dio si è fatto uomo? E tu accetteresti un loro annuncio di un Dio gatto? Io no.
Dire che di Messia ne sforna ogni angolo della terra è un modo un pò semplicistico per ridicolizzare il diverso senza mettersi nei suoi panni. Tipico del cattolico occidentale conquistadores…

Mor - Una cosa mi pare certa: la redenzione ed il suo valore non si fanno certo fermare dalle distanze, ma le medesime cambiano (e di molto) la nostra comprensione del fatto.

Ic - Anch’io penso che un evento del genere comporterebbe un percorso di comprensione, nel senso che ci sarebbe una nuova direzione secondo cui approfondire tutto il percorso di accompagnamento di Dio con l’uomo.
Problematica mi pare la posizione di Mauro che spinge sull’alterità: ET potrà pure volare, ma quanto diversamente potrà comunicare. conoscere, amare… alla fine qualcosa dovremo pur avere in comune per porci il problema comune della venuta di Dio e della redenzione. Ed è su questo che abbiamo in comune che si può fare un confronto per andare a comprendere le differenze specifiche dei 2 tipi di annuncio che ipoteticamente potremmo avere. O è ragionevole prender per buoni tutti i messia? O dobbiamo trattenere il buono da ogni messia?

Mauro – Adesso mi cominci a piacere. Io non nego affatto la straordinarietà dell’evento Gesù Cristo, non lo voglio abbassare al rango degli altri messia. Certo che la redenzione supera ogni distanza. Ma di certo l’incarnazione che è avvenuta qua vale per noi, non possiamo pretendere che valga per eventuali altre creature intelligenti e coscienti ma non umane. Concordo quando dici che i due annunci al loro incontro si confronteranno per andare a comprendere le differenze e, aggiungo io, le similitudini. Mi piaceva meno il tuo commento precedente dove non si percepiva alcuna intenzione di confronto con altre rivelazioni, di cui - dicevi - è piena la storia. Il fatto è che la presunzione di aver tutta la verità in tasca ci offusca la mente di fronte alla vastità di possibilità che Dio ha di manifestarsi. Invece se anche si è manifestato nel nostro mondo e nella nostra storia, ciò non significa che non lo faccia anche altrove, chissà in che modo. Non credo che siano inutili speculazioni filosofiche. Credo che un po’ di umiltà di fronte alla Verità non farebbe male alla Chiesa di oggi, così - permettetemi - ecclesiocentrica.
Scusate se con il mio linguaggio posso aver offeso o stancato qualcuno. Non era mia intenzione.

Mor - Però c’è un punto che non mi pare affatto secondario e che secondo me andrebbe approfondito. L’incarnazione vale solo per noi umani e questo ci può pure stare. Del resto, eventuali altre forme di vita intelligente potrebbero benissimo non essere fatte di carne ma di materia gelatinosa (ovviamente semplifico per far prima).
Ma la redenzione? Voglio dire: se la redenzione è legata (e lo è) all’incarnazione, l’ET di turno non è redento? E allora si potrebbe ipotizzare un’altra incarnazione (o come vogliamo chiamarla) per altre forme di vita?

Ic - I Padri parlavano di logoi spermatikoi che informano molte realtà. E lo Spirito soffia dove gli apre. E, perché no, potrebbero esserci anche dei “naturaliter christiani” tra gli ET.
Del resto Dio parla innanzitutto attraverso la creazione, e ET è creatura. Per quanto diverso, sarà materia e forma.
Dio si è fatto uomo. Nato da donna, è entrato nella materia creata. E ha redento tutta la materia, tutto il creato. E’ già una comunione non da poco con un qualche ET.
Ma la comunione di Dio con l’uomo è l’essere diventato uomo. Ma qual’è la differenza specifica dell’uomo nella creazione? l’essere fatto a immagine e somiglianza di Dio.
E questa somiglianza con Dio in cosa consiste se non nella capacità creativa ? I gatti, ad esempio, sono bravissimi e intelligentissimi, ma non hanno capacità creativa. E a cosa è chiamata la sua creatura fatta come lui se non a partecipare dell’attività creativa di Dio? E Cristo non ha partecipato sommamente alla ricreazione del creato?
Quando i conquistadores trattavano come schiavi gli indios non negavano forse loro l’anima, una reale capacità creativa?
Quindi più che se carne o gelatina, che sempre materia è, non dovremo forse constatare, quando e se sarà, se questi ET hanno una capacità creativa di cui devono rispondere partecipando responsabilmente alla creazione di Dio?
E l’umanità di Cristo pone problema all’ET se questa non consiste tanto negli occhi azzurri o meno, ma nell’essere entrato nella creazione e aver condiviso quell’umanità che è essere immagine e somiglianza ovvero la chiamata a partecipare della creazione?
E, quindi, c’è bisogno di un altro redentore per gli ET o non possono riconoscersi in Gesù Cristo?

Mauro - Io capisco la tua posizione e la rispetto. Però non mi convince. Questo non significa che abbia un “credo” migliore del tuo da proporti. La nostra ipotesi riguardo ad un eventuale incontro tra esseri di pianeti diversi è pura fantascienza perchè le distanze sono incolmabili anche alla velocità della luce, ed i relativi linguaggi probabilmente sarebbero altrettanto lontani. Ciò non toglie che è molto probabile che questi esseri ci siano in grande abbondanza, in molti pianeti e molte forme diverse. Ora Dio avrebbe scelto la terra su tutti i pianeti possibili, e questo è già perlomeno strano, ma poi come farebbe a farlo sapere agli altri? I tempi intergalattici sono di milioni, centinaia di milioni di anni, ammesso che un incontro prima o poi avvenga. Dio vuole una attesa così lunga? O non è più semplice pensare che per noi ha pensato a Cristo, e altre soluzioni che non sapremo mai per altri esseri intelligenti?

Ic - Certo altri cammini di Dio con il suo popolo possono esserci stati, altri deserti, altre parole dette al cuore, altri silenzi sottili.
Anche un’altra incarnazione? Non lo so. Come metodo, condivido il non mettere limiti a Dio che per il poco che sappiamo ha dimostrato di avere buona inventiva.
Però, una cosa con certezza lo sappiamo: la distanza, in termini di km e di tempo, non è una obiezione all’unicità dell’incarnazione. Abbiamo antenati, basta andare indietro di una manciata di generazioni, che non hanno mai saputo nulla del Vangelo. Come pure certi compagni dell’asilo dei miei figli. Così vicini, così lontani. Non occorre andare nelle distanti galassie per trovarli!
Eppure questa non è un’obiezione che ha fermato Dio dall’incarnarsi, in un tempo e in uno spazio molto limitati. Già qui ci sono galassie di esclusi! Ma mica possiamo pensare che Dio non abbia pensato a loro, ma non tramite altre incarnazioni…
Nel senso che non vorrei introdurre l’ipotesi di altre incarnazioni, non tanto perché è richiesto dal “problema”, ma perché risulta, come dire, “culturalmente più corretto”.
Per questo io non spingerei sull’alterità di un eventuale ET per postulare altre “economie intratrinitarie o quaternarie”. E proseguendo sul problema carne-incarnazione posto da Mor, mi chiedo ma quale analogia non possiamo non avere con un eventuale ET? la creaturalità, il limite, la morte, la paura, la generazione, la creatività, il ringraziamento, la lode e poi cosa ancora.
Mi scuso, per lo spazio preso. Ma l’argomento è molto bello,e forse con Mauro non stiamo solo ragionando di ET…

Mor - No, non si sta ragionando solo di ET. Del resto, il bello dei binocoli e dei cannocchiali è che se si rovesciano si vede la realtà avvicinarsi come non mai. Il fatto che non lo facciamo mai e che li usiamo invece solitamente allo stesso modo non toglie che ogni tanto la cosa risulti un esercizio salutare.

domenica 3 luglio 2011

La verità

L'autorità non possiede affatto il monopolio della verità cristiana, di modo che agli altri non resterebbe altro da fare che rivolgersi a lei per acquistarla... Infatti la verità dogmatico - teorica, che nella chiesa viene esposta con autorità e proposta da credere, non è che una metà della verità cristiana, la quale si manifesta nella sua totalità solo quando viene praticata nell'amore da tutti i membri... Soltanto in tale traduzione pratica la verità dogmatica diventa pienamente cristiana, vale a dire modellata su Cristo.
H.U. Von Balthassar, Punti fermi, Rusconi, 1972, pg 158.

«Effettivamente nell’indagare la verità rivelata in Oriente e in Occidente furono usati metodi e cammini diversi per giungere alla conoscenza e alla confessione delle cose divine. Non fa quindi meraviglia che alcuni aspetti del mistero rivelato siano talvolta percepiti in modo più adatto e posti in miglior luce dall’uno che non dall’altro, cosicché si può dire che quelle varie formule teologiche non di rado si completino, piuttosto che opporsi. Per ciò che riguarda le tradizioni teologiche autentiche degli orientali, bisogna riconoscere che esse sono eccellentemente radicate nella Sacra Scrittura, sono coltivate ed espresse dalla vita liturgica, sono nutrite dalla viva tradizione apostolica, dagli scritti dei Padri e dagli scrittori ascetici orientali, e tendono a una retta impostazione della vita, anzi alla piena contemplazione della verità cristiana» 
Giovanni Paolo II, nel 1994, Unitatis Redintegratio n. 17.

sabato 18 giugno 2011

"Mai più rifiuto o disprezzo contro gli zingari"


Chissà se Joseph si ricorderà di queste belle parole anche domani, quando atterrerà nella Repubblica di San Marino, uno Stato che nei confronti degli zingari non è esattamente un modello di accoglienza!

sabato 11 giugno 2011

Io, ed il vangelo


Tra i colloqui più vivaci ed interessanti della mia vita, vi sono certamente quelli in cui l’argomento della discussione è stato proprio il vangelo. In credenti e non credenti, praticanti e non praticanti, vi è un interesse trasversale, un forte bisogno di capire e essere capiti senza sentirsi giudicati. Appena si supera l'imbarazzo - tabù sulla propria esperienza religiosa, emergono innumerevoli idee, versioni diverse, di cosa Gesù intendeva dire o fare. Ci si vergogna un po’ a parlare di Gesù, ma una volta superata la paura si scopre che ognuno ha già elaborato dentro di sé le sue idee, ci ha lavorato non senza fatica ed è arrivato alle sue conclusioni. Questi confronti mi hanno insegnato che prima di parlare di un singolo brano bisogna chiarire cosa è il vangelo, come noi lo intendiamo, cosa ci aspettiamo da esso.
Mi hanno insegnato però anche un’altra cosa: le cose più belle emergono non dall’esegesi, non da eccessi di erudizione, né da teologie sociali o psicologiche o chissà cos’altro ancora. Il meglio viene fuori quando le persone confrontano il vangelo con la propria vita, che è sempre diversa: da soggetto a soggetto, e da un periodo all’altro.

Alcune domande per cominciare
Preso in mano il testo sacro mi sono fatto alcune domande ancor prima di leggere la prima riga, ancor prima di sfogliare il testo.
Cos’è questo libro che tengo in mano? O meglio: cosa leggo quando leggo il vangelo? Un testo “dettato” da Dio? Un testo storico? Un testo mitico? Un testo integro, cioè mai rimaneggiato dopo la sua prima stesura? E’ importante farsi queste domande, perché che lo vogliamo o no siamo figli del nostro tempo e ci portiamo dentro una premesse e pregiudizi che operano indisturbati quanto meno li conosciamo. Una lettura ingenua e non informata può rivelarsi addirittura pericolosa.
Dice giustamente Alberto Maggi nel titolo di un suo libro: ”Come leggere il vangelo e non perdere la fede” (Cittadella Editrice), e così motiva la scelta di tale affermazione: “Quanti si avvicinano ai vangeli lamentano che spesso la lettura di questi testi non solo non suscita la fede, ma rischia di metterla in crisi; ciò non solo per l’evidente difficoltà di vivere un insegnamento che richiede maturità ed impegno, ma perché le formulazioni presenti in questi testi sono spesso una sfida al buon senso. (…) fin dalle prime righe si ha la sensazione di trovarsi alle prese con un libro di favole o di racconti mitologici. (…) Problemi che dipendono in parte dal fatto che il lettore si trova di fronte ad una traduzione di un testo trasmesso duemila anni fa in una lingua ormai defunta, e con immagini scaturite da una cultura orientale molto differente da quella occidentale.”
Perché io, oggi, leggo il vangelo? Cosa mi spinge? E’ forse un dovere religioso? E’ bisogno di pregare? Devo trovare in esso risposte ai miei problemi personali?

Tentare una risposta a queste domande è fondamentale. Non vi saranno risposte giuste o sbagliate. Ci saranno solo risposte. Non assumeremo un atteggiamento puerile o “miracolistico”. Si può essere in un momento di confusione e cercare chiarezze che rispondano ad hoc alla nostra situazione. Si può essere di fronte ad una sfida culturale, come ad esempio l’avvicinarsi di un conflitto, o questioni etiche, come quella della clonazione, l’eutanasia, l’aborto, l’inseminazione artificiale, il divorzio, la pena di morte… e ogni volta è forte la tentazione di andare a cercare nei vangeli situazioni analoghe per vedere cosa avrebbe risposto Gesù. Bene: non è questo il loro scopo, non è in questo senso che essi sono Parola di Dio, anzi è proprio così facendo che ai vangeli si può far dire tutto ed il contrario di tutto. Dal “perché” leggo i vangeli, dipende cosa ne verrà fuori. Per questo, bisogna lavorare molto su questo “perché”, affinché si purifichi fino ad arrivare a capire se nei vangeli cerchiamo “il vangelo” o qualcos’altro.
Occorre sapere che non si tratta di libri di psicologia, magari “sacra”, e non contengono di conseguenza risposte psicologiche, né sociologiche, né filosofiche. Non sono un trattato di politica, né un compendio di morale, o una favola per bambini. Non sono neppure libri di storia così come la intendiamo noi oggi. Il vangelo “non è” un sacco di cose! E’ piuttosto l’invito a credere ad un fatto, avere fede in una persona realmente esistita, ma di cui sappiamo ben pochi particolari. E’ solo questo, e se vi cercheremo “solo” questo, vi troveremo anche molto altro.


Vangelo e vangeli
Da quanto detto finora già emerge la necessità di distinguere tra vangelo e vangeli.
Per “vangelo” intendiamo il messaggio di Gesù, la “buona novella” detta al mondo dal Padre, mentre con “vangeli” si intendono i quattro opuscoli narranti la vita di Gesù, che la tradizione cattolica ha considerato dagli inizi come testi privilegiati, ispirati e canonici.
Questa distinzione è fondamentale, perché se da una parte noi abbiamo tra le mani i vangeli, non và mai dimenticato che l’obiettivo della nostra ricerca non sono loro, ma il vangelo che essi contengono.
Scriveva il Ratzinger di 50 anni fa “La Rivelazione indica una realtà di cui la Scrittura ci informa, ma che non è semplicemente la Scrittura stessa. (…) Non si può mettere in tasca la Rivelazione così come si può portare con sè un libro. Essa è una realtà vivente, che esige l’accoglienza di un uomo vivo come luogo della sua presenza”. (Rivelazione e Tradizione, Morcelliana. Ristampa di una conferenza tenuta nel 1963).
I vangeli, riprendendo proprio una parabola evangelica, sono come un campo nel quale è nascosto un tesoro prezioso (Mt. 13,44). Non si tratta di andare alla scoperta dell’io di Gesù, dei suoi sentimenti, delle parole che ha veramente detto, delle sue gioie e dei suoi dolori come tanti film e libri su “la vita di Gesù” hanno tentato di fare: non abbiamo gli strumenti per farlo e forse non li abbiamo proprio perché non è questo che dobbiamo fare. Si tratta invece di trovare ciò che è nascosto nel campo, il nucleo del Cristianesimo, e su questo ognuno deve fare il proprio cammino, passando dai vangeli al vangelo, dalle parole alla nostra personale esperienza di incontro con il Signore.
I vangeli sono quattro, e differenti l'uno dall'altro. Non sono quattro storie diverse, ma una stessa storia raccontata secondo quattro punti di vista. Non a caso la tradizione cattolica ce li ha tramandati come il vangelo “secondo” Matteo, “secondo” Marco, ecc… proprio per sottolineare già dal titolo che il vangelo in realtà è uno, ed è altrove, non può essere racchiuso in poche pagine di carta. Inevitabilmente chi ce ne parla comunica le cose viste secondo lui o al limite secondo la comunità che egli rappresenta.
Lo stesso Nuovo Testamento, nelle lettere paoline, ci mette in guardia dall’idolatria del “libro” che uccide lo Spirito che vi sta dietro.

Un lavoro di comunità
I vangeli a noi appaiono come testi completi, con un inizio, una fine ed un proprio senso logico interno; situati all’inizio del Nuovo Testamento seguendo un ordine ben preciso, intitolati con il nome dello stesso evangelista. Ebbene, questi testi non nascono con la sequenza interna che vediamo oggi - prima furono scritti i “finali” sulla morte e resurrezione, e poi tutto il resto - non sono inseriti nel Nuovo Testamento secondo un ordine cronologico o di importanza, e soprattutto ognuno di essi non è il frutto del lavoro di una singola persona.
L’evangelista è infatti il redattore finale di una serie di scritti, detti, tradizioni orali, ricordi pervenuti da sé e da altri. Mi piace pensare ad ogni evangelista davanti ad un tavolo pieno di pezzetti di papiro, con tante frasi, episodi che si sommano a quelli che tornano alla memoria dell’evangelista stesso. Un tavolo pieno di confusione, di spunti sparsi, senza un inizio ed una fine, e due occhi che guardano il tutto pensando: “ma con tutto questo cosa voglio dire?” Egli, il redattore, infatti, utilizza e assembla tutto questo materiale secondo un progetto, un’idea portante. Inoltre lega il suo nome all’opera, non tanto per dire che l’ha scritta per intero lui, ma per dare autorevolezza al testo, per dire “questo testo è la versione dei fatti approvata, rivista, vissuta, approvata da …Matteo, Marco, Luca, Giovanni, cioè persone che lo hanno visto, seguito, che risalgono proprio all'epoca dei fatti”.
Spesso quindi vediamo utilizzare brani uguali o molto simili, in vangeli che però mirano a trasmettere contenuti teologici differenti. Diventa chiaro allora che non si può estrapolare una frase senza sapere perché l’evangelista l’ha inserita in quel punto.

Parola di Dio e di uomini
Non dobbiamo dimenticare neppure che quella che chiamiamo “Parola di Dio” porta in sé paradossalmente, tracce di errori e lacune molto umane.
Dice Valerio Mannucci “… se il lettore è credente e accosta la Bibbia come Parola di Dio, essa gli apparirà tanto umana da patirne inizialmente scandalo. Imperfezioni, lacune, limiti scientifici ed anche religiosi di alcuni testi; carattere sconcertante di una storiografia così lontana dalle odierne esigenze critiche; estraneità di tanti tratti che appaiono folcloristici e leggendari; livello morale notevolmente arretrato di certi gesti o costumi; inesattezze cronologiche o topografiche; divergenze nella trasmissione delle stesse parole di Gesù, ecc… non si incontra la Parola di Dio se non toccando e attraversando tutto lo spessore della parola umana” (Bibbia come Parola di Dio, Queriniana 1986, pag.81)
Molti testi sono passati dall’originale forma ebraica o aramaica al greco, lingue tra loro molto diverse e non sempre capaci di tradurre l’una i concetti dell’altra. Libri scritti a mano, ricopiati più volte nel corso dei primi secoli per supplire all’inevitabile usura alla quale sono andate incontro le copie originali.
Vi è poi il problema della distanza culturale, per cui non è sufficiente tradurre bene quei testi, ma anche capire il loro senso senza fermarsi al significato letterale, “traducendo” per così dire concetti per noi distanti ed insignificanti, in termini che rimandano alla nostra esperienza quotidiana.
La chiesa ha camminato tanto nell’interpretazione dei suoi testi fondanti. Si è passati dall’idea di un Dio che “detta” le sue parole agli autori sacri, a quella del “suggerimento”. Quando è nato il metodo scientifico applicato ai testi storici la Chiesa inizialmente ha opposto resistenza, poi si è aperta all’esegesi scientifica con l’Enciclica Divino affilante Spiritu di Pio XII, arrivando addirittura a raccomandarla nei seminari. Infine il Concilio Vaticano II nella costituzione Dei Verbum riprendendo la svolta operata negli anni ‘40, ne ha rimarcato la centralità e la necessità dello studio con le migliori tecniche d’indagine moderne.
Certo l'impressione è che il cammino fatto dalla teologia ufficiale non corrisponda affatto a quello del popolo, che è affascinato dalla "lettera" e dal miracolo e che finora penso non si sia nemmeno tentato di catechizzare.

I vangeli mostrano e nascondono. Mostrano, perché quasi tutto ciò che sappiamo su Gesù è al loro interno. Nascondono, perché sono tante le cose che non dicono, quelle che sottovalutano o enfatizzano a seconda della loro specifica preoccupazione. Giovanni conclude il suo vangelo proprio con queste parole: “Vi sono ancora molte altre cose compiute da Gesù che, se fossero scritte una per una, penso che il mondo stesso non basterebbe a contenere i libri che si dovrebbero scrivere” (Giovanni 21,25). E Bultmann afferma con tutto il mio consenso "La Parola di Dio è nascosta nella Scrittura, così come è nascosta ogni altra operazione di Dio" (cfr. Nuovo Testamento e mitologia, Queriniana, 2005).
Tutto ciò non ci scandalizza, perché fa parte di una logica coerente dello Spirito di Dio, il quale usa strumenti limitati, deteriorabili, non necessariamente i migliori, per comunicare Sé stesso all’umanità. E’ la logica dell’incarnazione, in fondo, ed è la stessa logica che rende sensata l’appartenenza alla chiesa cattolica a distanza di 2000 anni dall’evento Gesù.
Per tutti questi motivi comprendiamo che per un cattolico i vangeli vanno necessariamente letti nella Chiesa (Dei Verbum 10): e questo non è un limite, ma una ricchezza se per “Chiesa” si intende, come fa il Concilio Vaticano II, l’intero popolo di Dio (Lumen Gentium 8). Nessuno può pretendere di imporre la propria lettura personale, il significato dei testi và cercato insieme. “Insieme” significa che neppure i pastori potranno fare a meno dell’interpretazione dei fedeli, e gli uni e gli altri non rinunceranno ai commenti della Tradizione ed alle indicazioni del Magistero, e anche questo lo faranno lasciando aperte le porte a nuove interpretazioni, a nuovi significati, senza mai cadere nella presunzione di essere giunti ad un punto culmine, definitivo.

Uno strano libro di storia
Come vanno letti i vangeli? Che “genere” di lettura ci presentano? E ancor prima: cosa è un genere letterario?
Per genere letterario intendiamo un modo di scrivere che risponde a certe regole e in virtù di tali regole accomuna testi diversi tra loro. Le poesie, ad esempio, rispondono a certe regole e vengono paragonate o accomunate ad altre poesie, non certo a romanzi o a testi storici. Allo stesso tempo non si può cercare in una poesia quello che essa non vuole dare, ad esempio date, nomi di luoghi, riferimenti precisi. Anche i diari personali, i testi delle canzoni, gli SMS, sono generi letterari, e rispondono a regole condivise, tacite, le quali permettono ai destinatari di comprendere il senso del messaggio senza bisogno di tante spiegazioni. Le spiegazioni diventano invece necessarie quando ci si avvicina ad un genere letterario come quello degli evangelisti, che oltre ad essere lontano di venti secoli da noi, è anche unico: non ha cioè simili né prima, né dopo la loro pubblicazione.
Col passare degli anni i testimoni oculari di Gesù scompaiono e l’annuncio ai lontani richiede una formulazione nuova, capace di cogliere le domande dei popoli greci e latini. Da qui nasce con Marco il primo vangelo, al quale poi seguono gli altri. Il vangelo si preoccupa di narrare tutta la vita di Gesù, perché i suoi destinatari non l’hanno conosciuto e vogliono sapere cosa ha fatto, come si è comportato in situazioni critiche, cosa ha detto. “Il vangelo, venendo in contatto con i pagani e diffondendosi, si trova nella necessità, che và ogni giorno crescendo, di stringere stretti legami con la persona di Gesù. E’ per questo motivo che la predicazione ai Gentili riduce gli argomenti scritturistici per insistere maggiormente sugli aspetti di carattere cronologico e geografico che permettono di ambientare Gesù di Nazaret.” (Renè Latourelle, A Gesù attraverso i vangeli, Cittadella Editrice 1982, pg. 125).
I vangeli dunque, pur muovendosi dentro una cornice storica, risentono del bisogno di fare qualcosa che non sia semplicemente un racconto storico, ma degli annunci specifici, per un destinatario particolare, diverso per ognuno dei quatto evangelisti. Fermarsi alla lettera, al “vero o falso” di ogni singolo versetto sarebbe un lavoro infinito e sterile, perché la verità che essi dicono sta nel messaggio complessivo che ne esce. Nella misura in cui lo sapremo riconoscere impareremo pure a dare la giusta importanza alle singole affermazioni per intravedere all’orizzonte sempre più chiaramente il dipanarsi della Buona Novella.
Lo stesso Concilio ha recepito questo doppio piano di significati: “Per ricavare l’intenzione degli agiografi, si deve tener conto, tra l’altro, anche dei generi letterari. La verità infatti viene diversamente proposta ed espressa nei testi in vario modo storici, o profetici, o poetici, o con altri modi di dire. E’ necessario inoltre che l’interprete ricerchi il senso che l’agiografo intese di esprimere ed espresse in determinate circostanze, secondo la condizione del suo tempo e della sua cultura, per mezzo dei generi letterari allora in uso.” (Dei Verbum 12).
E non basta. Oltre al genere letterario, alle circostanze, alla cultura, c'è un altro elemento importante che si interpone tra noi e il fatto narrato: la persona che scrive. Essa ha il suo punto di vista, le sue priorità, la sua visione delle cose. Dice Bultmann a tale proposito "L'immagine, apparentemente oggettiva, di un avvenimento storico, reca sempre l'impronta dell'individualità di chi osserva, poichè anche quest'ultimo è un soggetto storico e non può pertanto mai essere neutrale, al di fuori della storia" (Nuovo Testamento e Mitologia, Queriniana, 2005).
I vangeli, che ci piaccia o no, sono un intreccio di tutti questi elementi. Sono il libro più venduto al mondo, ma non per questo di facile "scomposizione". Essi passano per mille disavventure: vengono tramandati a pezzi, oralmente; vengono interpretati e scritti in modo diverso che si tratti di rivolgersi ai cristiani di Roma, o di Atene, o di Gerusalemme. Il racconto orale poi, difficilmente rispetta la verità storica intesa in senso moderno come cronaca degli avvenimenti: solitamente succede che i fatti più eclatanti vengono “trasformati”, mitizzati, come dice Bultmann, senza volerlo: ciò non significa che nelle nostre mani arrivino documenti falsificati, ma solo che nel cercare la verità dovremo tenere conto di tutto questo.
Studi moderni di antropologia ci hanno svelato che “L’avvenimento storico, in sé stesso, qualsiasi ne sia l’importanza, non è trattenuto nella memoria popolare ed il suo ricordo infiamma l’immaginazione poetica soltanto nella misura in cui questo avvenimento storico si avvicina di più ad un modello mitico.” (Mircea Eliade, Il mito dell’eterno ritorno, Borla). La vicenda di Gesù di Nazareth non fa eccezione. Ed è tenendo conto di tutto questo che ci possiamo avventurare, tramite i vangeli, nella affascinante ricerca del “vangelo”.

Il protestantesimo in Italia

lunedì 6 giugno 2011

Resistenza e resa


Oggi riporto alcuni stralci di lettere dal carcere di Dietrich Bonhoeffer ad Eberhard Bethge, risalenti all’estate del 1944, durante la seconda guerra mondiale. I passi riportati di seguito seguono la continuità logica di un discorso teologico che i due sviluppano a "puntate". Il testo completo è riportato in "Resistenza e resa", pubblicato dalle Edizioni Paoline.
Si tratta di "concetti" che riprendo spesso e che hanno molto influito nella mia vita. In particolare è molto forte e attuale il modo di Bonhoeffer di intendere la presenza di Dio in mezzo a noi. Un pò lunghino, ma vale veramente la pena non correre.

Un Dio "tappabuchi" ?
Per me è nuovamente evidente che non dobbiamo attribuire a Dio il ruolo di tappabuchi nei confronti dell'incompletezza delle nostre conoscenze; se infatti i limiti della conoscenza continueranno ad allargarsi - il che è oggettivamente inevitabile - con essi anche Dio viene continuamente sospinto via, e di conseguenza si trova in una continua ritirata.

Dobbiamo trovare Dio in ciò che conosciamo; Dio vuole esser colto da noi non nelle questioni irrisolte, ma in quelle risolte. Questo vale per la relazione tra Dio e la conoscenza scientifica. Ma vale anche per le questioni umane in generale, quelle della morte, della sofferenza e della colpa. Oggi le cose stanno in modo tale che anche per simili questioni esistono delle risposte umane che possono prescindere completamente da Dio. Gli uomini di fatto vengono a capo di queste domande - e così è stato in ogni tempo - anche senza Dio, ed è semplicemente falso che solo il cristianesimo abbia una soluzione per loro. Per quel che riguarda il concetto di " soluzione ", le risposte cristiane sono invece poco (o tanto) cogenti esattamente quanto le altre soluzioni possibili. Anche qui, Dio non è un tappabuchi; Dio non deve essere riconosciuto solamente ai limiti delle nostre possibilità, ma al centro della vita; Dio vuole essere riconosciuto nella vita, e non solamente nel morire; nella salute e nella forza, e non solamente nella sofferenza; nell'agire, e non solamente nel peccato. La ragione di tutto questo sta nella rivelazione di Dio in Gesù Cristo - Egli è il centro della vita, e non è affatto "venuto apposta" per rispondere a questioni irrisolte.
Partendo dal centro della vita, determinate questioni vengono semplicemente a cadere, e parimenti viene a cadere la risposta ad esse (penso al giudizio sugli amici di Giobbe!). In Cristo non esistono problemi cristiani.
(pp. 382-383)

Il mondo divenuto adulto
Voglio provare ad indicare ora la mia posizione dal punto di vista storico. Il movimento nella direzione dell'autonomia dell'uomo (intendo con questo la scoperta delle leggi secondo le quali il mondo vive e basta a se stesso nella scienza, nella vita della società e dello Stato, nell'arte, nell'etica e nella religione), che ha inizio (non voglio entrare nella discussione sulla data precisa) all'incirca col XIII secolo, ha raggiunto nel nostro tempo una certa compiutezza. L'uomo ha imparato a bastare a sè stesso in tutte le questioni importanti senza l'ausilio dell' "ipotesi di lavoro: Dio". Nelle questioni riguardanti la scienza, l'arte e l'etica, questo è diventato un fatto scontato, che praticamente non si osa più mettere in discussione; ma da circa 100 anni ciò vale in misura sempre maggiore per le questioni religiose; si è visto che tutto funziona anche senza "Dio", e non meno bene di prima. Esattamente come nel campo scientifico, anche nell' ambito generalmente umano "Dio" viene sempre più respinto fuori dalla vita e perde terreno.
Ora, la storiografia cattolica e quella protestante sono d'accordo nel ritenere che in questa evoluzione si debba vedere il grande distacco da Dio e da Cristo; e quanto più esse chiamano in causa e si servono di Dio e di Cristo contro questa evoluzione, tanto più questa stessa evoluzione si auto comprende come anti cristiana. Il mondo che ha raggiunto la consapevolezza di se stesso e delle leggi che regolano la sua vita è talmente sicuro di sé che la cosa ci risulta inquietante; qualche difetto di crescita e qualche fallimento non possono trarre in inganno il mondo sulla necessità della sua strada e della sua evoluzione; tutto questo viene messo in conto con virile freddezza e nemmeno un evento come questa guerra rappresenta un'eccezione. Contro questa sicurezza di sé l'apologetica cristiana è scesa in campo in diverse forme. Si cerca di dimostrare al mondo divenuto adulto che non può vivere senza il tutore "Dio". Nonostante la già avvenuta capitolazione davanti a tutte le questioni mondane, restano tuttavia le cosiddette "questioni ultime" - la morte, la colpa - cui solo "Dio" può dare una risposta, e per le quali c'è bisogno di Dio, della Chiesa e del pastore. Noi viviamo dunque in certa misura delle cosiddette questioni ultime dell'uomo. Ma che cosa accadrà quando esse un giorno non esisteranno più come tali, ovvero quando anch'esse troveranno risposta "senza Dio"?
A questo punto intervengono gli epigoni secolarizzati della teologia cristiana, cioè i filosofi esistenzialisti e gli psicoterapeuti, e dimostrano all'uomo sicuro, soddisfatto, felice, che in realtà è infelice e disperato, solo che non vuole riconoscere di trovarsi in una situazione sventurata, di cui non sapeva nulla e da cui solo loro possono salvarlo. Dove c'è salute, forza, sicurezza, semplicità, essi fiutano un dolce frutto da rodere o in cui depositare le loro malefiche uova.
Essi mirano anzitutto a spingere l'uomo in una situazione di disperazione interiore, e poi hanno partita vinta. Questo è metodismo secolarizzato. E con chi riesce? Con un piccolo numero di intellettuali, di degenerati, di quelli che si credono di essere la cosa più importante al mondo e perciò si occupano volentieri di se stessi. L'uomo semplice, che trascorre la sua vita quotidiana tra lavoro e famiglia, certo con deviazioni di ogni genere, non ne è coinvolto. Non ha ne tempo ne voglia di occuparsi della sua disperazione esistentiva e di considerare la sua felicità magari modesta sotto l'aspetto della "tribolazione", della "cura", della "sventura" .
Ritengo questi attacchi dell'apologetica cristiana contro la maggior età del mondo: primo, privi di senso; secondo, di scadente qualità; terzo, non cristiani.
Privi di senso, perché mi sembrano il tentativo di far tornare al periodo della pubertà qualcuno che è già diventato uomo, cioè di renderlo dipendente da cose dalle quali di fatto non dipende più, e di cacciarlo in problemi che per lui di fatto non sono più tali.
Di scadente qualità, perché qui si cerca di sfruttare la debolezza di una persona per scopi che le sono estranei e che non ha accettato liberamente.
Non cristiani, perché Cristo viene scambiato con un determinato livello della religiosità dell'uomo, cioè con una legge umana.

Intanto qualche parola ancora sulla situazione storica. La questione è questa: Cristo e il mondo divenuto adulto.
Barth è stato il primo a riconoscere che l'errore (…) consisteva nel voler mantenere nel mondo o contro il mondo uno spazio per la religione. Contro la religione egli fece scendere in campo il Dio di Gesù Cristo, pneuma contro sarx. (…)
La Chiesa confessante ha semplicemente dimenticato in larga misura l'impostazione barthiana e dal positivismo è caduta nella restaurazione conservatrice. La sua importanza sta nel mantenere i grandi concetti della teologia cristiana, ma sembra quasi che in questo essa si stia progressivamente esaurendo. (p. 398-402)

Io parto dal fatto che Dio viene spinto sempre più fuori da un mondo diventato adulto, dall'ambito della nostra conoscenza e della nostra vita, e che da Kant in poi ha conservato uno spazio solo al di là del mondo dell'esperienza. La teologia si è da una parte opposta apologeticamente a questa evoluzione, e ha dato l'assalto - vanamente - al darwinismo ecc.; dall'altra si è aggiustata con questa evoluzione facendo giocare a Dio solo più il ruolo del deus ex machina in relazione alle cosiddette questioni ultime; Dio cioè diventa la risposta alle questioni esistenziali, diventa la soluzione delle pene e dei conflitti della vita. Se dunque un uomo non ha nulla di simile da esibire, ovvero si rifiuta di entrare in tali questioni e di farsi compiangere, allora per Dio egli è effettivamente inaccessibile, oppure si deve dimostrare a quest'uomo privo di questioni esistenziali che, senza ammetterlo e senza saperlo, in realtà è profondamente immerso in questi problemi, miserie, conflitti ecc. Se ciò riesce - e sia la filosofia esistenzialistica che la psicoterapia hanno elaborato in tal senso metodi raffinatissimi - solo allora quest'uomo diventa accessibile a Dio, e il metodismo può celebrare il suo trionfo. Se non si riesce a condurre quest'uomo a considerare e a designare la sua felicità come una sciagura, la sua salute come malattia, la sua forza vitale come disperazione, allora il latinorum dei teologi non serve più a nulla. Si ha che fare o con un peccatore incallito dalla natura particolarmente malvagia, oppure con un'esistenza " borghesemente satura "; il primo è tanto lontano dalla salvezza quanto la seconda.
Vedi, questo è l'atteggiamento spirituale contro il quale voglio oppormi. Se Gesù ha fatto beati dei peccatori, si trattava però di veri peccatori; ma Gesù non ha fatto come prima cosa di ogni uomo un peccatore. Egli li ha chiamati fuori dai loro peccati, non ve li ha fatti entrare. Certamente l'incontro con Gesù significava il rovesciamento di ogni valutazione umana. Così è stato per quanto riguarda la conversione di Paolo. In questo caso però l'incontro con Gesù precedeva il riconoscimento del peccato. Certamente Gesù si è preso cura di esistenze che si trovavano ai margini della società umana: prostitute, pubblicani; ma tuttavia assolutamente non solo di loro, perché egli ha voluto prendersi cura degli uomini in generale. Gesù non ha mai messo in questione la salute, la forza, la felicità di un uomo in quanto tali, ne li ha considerati dei frutti bacati; perché altrimenti avrebbe risanato i malati, ridato forza ai deboli? Gesù rivendica per sè e per il Regno di Dio la vita umana tutta intera e in tutte le sue manifestazioni.
(pp.416-418)

Dio, un fatto privato?
Il fatto che Dio è stato allontanato dal mondo, dalla dimensione pubblica dell'umana esistenza, ha portato al tentativo di mantenerlo presente ancora almeno nell'ambito del " personale ", dell'" interiore ", del "privato". E siccome ogni uomo ha ancora da qualche parte una sfera del privato, s'è creduto di poterlo attaccare su questo punto con la massima facilità. I segreti del lacchè - per dirla in modo rozzo - cioè l'ambito dell'intimità (dalla preghiera alla sessualità) - sono diventati il terreno di caccia dei moderni responsabili di cura d'anime. In questo assomigliano (pur essendo la loro intenzione completamente diversa) ai peggiori giornalisti scandalistici (…) che mettono a nudo l'intimità dei personaggi più in vista; in questo caso, per ricattare la gente sul piano sociale, finanziario, politico; nell'altro, per ricattarli sul piano religioso. Perdonami, ma non posso metterla in termini meno duri. (…) Quanto più un uomo è privo di legami, tanto più facilmente cade in questo atteggiamento.
Esiste anche un'assenza di legami degli uomini di chiesa, quello che noi chiamiamo atteggiamento "pretesco", quell' andar fiutando le tracce dei peccati degli uomini per riagguantarli. È come se uno arrivasse a conoscere una bella casa solo quando avesse trovato le gattabuie dell' ultima cantina, e se potesse apprezzare adeguatamente una buona opera teatrale solo quando avesse visto come gli attori si comportano dietro le quinte. La stessa cosa vale per quei romanzi degli ultimi 50 anni, dove si crede di aver rappresentato adeguatamente i personaggi solo dopo averli descritti nella camera da letto, e per quei film dove si ritengono indispensabili scene di nudo. Ciò che è rivestito, coperto, puro, casto, viene considerato a priori falso, denudato, impuro; così facendo, si dà solo prova della propria mancanza di purezza. La diffidenza e il sospetto elevati ad atteggiamento base nei confronti degli altri è la rivolta della mediocrità. Dal punto di vista teologico l'errore è duplice: in primo luogo si crede di poter giudicare una persona peccatrice solo dopo aver spiato i suoi punti deboli e i suoi tratti più ordinari; in secondo luogo si crede che l'essenza dell'uomo sia costituita dai retroscena interiori, intimi, e questa viene chiamata la sua "interiorità"; ora, il dominio di Dio dovrebbe consistere proprio in questi umani recessi! Per il primo punto, si deve dire che l'uomo è certamente peccatore, ma detto questo ci manca ancora molto perché sia volgare. Per essere banali, Goethe o Napoleone dovrebbero essere dei peccatori per il fatto di non esser stati sempre dei mariti fedeli? Ciò che conta non sono i peccati della debolezza, ma quelli forti. Non c'è alcun bisogno di andar in giro a spiare. La Bibbia non lo fa mai. (…): la Bibbia non conosce la nostra distinzione tra interiorità ed esteriorità. Perché dovrebbe? Ciò che conta per la Bibbia è sempre l'anthropos teleios, l'uomo intero, anche quando, come nel discorso della montagna, il decalogo viene spinto nella " massima interiorità ". È assolutamente non biblico pensare che una "disposizione" buona possa prendere il posto del bene nella sua interezza. La scoperta della cosiddetta interiorità è stata fatta solo nel Rinascimento (probabilmente in Petrarca). Il "cuore" nel senso biblico non è la realtà interiore, ma l'uomo intero, quale egli è davanti a Dio. Siccome l'uomo in effetti vive tanto dall'" esterno " verso l'"interno", quanto dall'" interno " verso l' " esterno ", la convinzione di poterne comprendere l'essenza solo nei suoi retroscena spirituali interiori è completamente deviante.

Io voglio perciò arrivare a questo, che Dio non venga relegato di contrabbando in qualche ultimo spazio segreto, ma che si riconosca semplicemente la maggior età del mondo e dell'uomo, che non si " taglino i panni addosso " all'uomo nella sua mondanità, ma che lo si metta a confronto con Dio nelle sue posizioni più forti, che si rinunci a tutte le astuzie pretesche, e non si considerino la psicoterapia e la filosofia esistenzialista strumenti che aprono la strada a Dio. L'invadenza di tutti questi metodi è troppo poco signorile per la parola di Dio, perché essa possa associarvisi. Essa non si associa alla rivolta della diffidenza, alla rivolta dal basso. Essa regna.
(pp.421-423)

Con Dio viviamo senza Dio
Dove Dio mantiene ancora uno spazio per sé? Chiedono gli animi impavidi, e poichè non trovano risposta condannono tutt'intera questa evoluzione che li ha condotti in una siffatta situazione di difficoltà. (...)
Così il nostro diventar adulti ci conduce a riconoscere in modo più veritiero la nostra condizione davanti a Dio. Dio ci dà a conoscere che dobbiamo vivere come uomini capaci di far fronte alla vita senza Dio. Il Dio che è con noi è il Dio che ci abbandona (Mc 15)! Il Dio che ci fa vivere nel mondo senza "l'ipotesi di lavoro Dio" è il Dio davanti al quale permanentemente stiamo. Davanti e con Dio viviamo senza Dio. Dio si lascia cacciare fuori del mondo sulla croce, Dio è impotente e debole nel mondo e appunto solo così egli ci sta al fianco e ci aiuta. È assolutamente evidente, in Mt 8,17, che Cristo non aiuta in forza della sua onnipotenza, ma in forza della sua debolezza, della sua sofferenza!
Qui sta la differenza decisiva rispetto a qualsiasi religione. La religiosità umana rinvia l'uomo nella sua tribolazione alla potenza di Dio nel mondo, Dio è l'uomo all'impotenza e alla sofferenza di Dio; solo il Dio deus ex machina. La Bibbia rinvia sofferente può aiutare. In questo senso si può dire evoluzione verso la maggior età del mondo, con la quale si che la descritta fa piazza pulita di una falsa il Dio della Bibbia, che ottiene potenza e spazio nel mondo immagine di Dio, apra lo sguardo verso grazie alla sua impotenza. Qui dovrà appunto inserirsi la " interpretazione mondana " .
Questo è il rovesciamento di tutto ciò che l'uomo religioso si aspetta da Dio. L'uomo è chiamato a condividere la sofferenza di Dio soffrendo in rapporto al mondo senza Dio. Deve perciò vivere effettivamente nel mondo senza Dio, e non deve tentare di occultare, di trasfigurare religiosamente, in qualche modo, tale esser senza Dio del mondo. Deve vivere " mondanamente " e appunto così prende parte alla sofferenza di Dio; l'uomo può vivere "mondanamente", cioè è liberato dai falsi legami e dagli intralci religiosi. Essere cristiano non significa essere religioso in un determinato modo, fare qualcosa di se stessi (un peccatore, un penitente o un santo) in base ad una certa metodica, ma significa essere uomini; Cristo crea in noi non un tipo d'uomo, ma un uomo. Non è l’atto religioso a fare il cristiano, ma il prender parte alla sofferenza di Dio nella vita del mondo. (…)
Questo venir trascinati nella sofferenza messianica di Dio in Gesù Cristo nel Nuovo Testamento si realizza in diversi modi: attraverso la chiamata dei discepoli alla sequela, attraverso il sedere alla stessa tavola con i peccatori, attraverso le " conversioni " nel senso più proprio del termine (Zaccheo), attraverso il gesto della grande peccatrice (che avviene senza confessione di colpa) (Lc 7), attraverso la guarigione dei malati (vedi sopra, Mt 8,17), attraverso l'accogliere i bambini. Tanto i pastori che i Magi d'oriente stanno davanti alla mangiatoia non come dei " peccatori convertiti ", ma semplicemente perché vengono attirati dalla mangiatoia (la stella) così come sono. Il centurione di Cafarnao, che non pronuncia assolutamente nessuna confessione, viene presentato come esempio di fede (cf Giairo). Gesù "ama" il giovane ricco. Il tesoriere etiope (Atti 8), Cornelio (Atti 9), non sono per niente delle esistenze sull'orlo dell' abisso. Nataniele è un " israelita senza falsità " (Gv 1,47); e, infine, Giuseppe di Arimatea, e le donne al sepolcro. L'unica cosa comune a tutti costoro è il prender parte alla sofferenza di Dio in Cristo. Questa è la loro " fede ". Nessuna traccia di metodica religiosa, l'" atto religioso " è sempre qualcosa di parziale, la " fede " è qualcosa di totale, un atto che impegna la vita. Gesù non chiama ad una nuova religione, ma alla vita. Come si presenta però questa vita? Questa vita della partecipazione all'impotenza di Dio nel mondo? Di questo spero di scriverti la prossima volta. Oggi ti dirò solo questo: se si vuole parlare di Dio in modo "non religioso", allora si deve parlarne in modo tale che con ciò non venga occultato, ma, al contrario, venga portato alla luce l'esser senza Dio del mondo; e proprio così sul mondo cade una luce stupefacente. Il mondo adulto è senza Dio più del mondo non adulto, e proprio perciò forse più vicino a lui.
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